Ho 18 anni e sto vivendo l’esperienza più bella della mia vita. Non avrei mai potuto immaginare che la passione per il basket mi avrebbe portato un giorno a ottomila chilometri da casa, in una città dove tutto sembra surreale: Miami. Ho sorvolato l’oceano con un gruppo di quindici ragazzi che, come me, fanno parte della Bball Academy e che sono qui per confrontarsi sul campo con coetanei americani. Mi sono resa conto di essere arrivata davvero in America solo quando, diretti a South Beach, abbiamo preso il classico scuola-bus giallo, facendoci sentire tutti come dentro un film. Il mio entusiasmo è cresciuto ancora di più sull’anfibio che ci ha iniziato alla riccanza di Miami. Sulle varie isole artificiali che hanno costruito, le persone più facoltose del mondo vivono in vere e proprie regge: alcune super moderne (come quella di Shaquille O’Neal…), altre dal gusto più classicheggiante e simili alle ville del Palladio. Al ritorno sulla terraferma altri eccessi, quelli della Ocean Drive. È stata poi la volta di South Beach, la leggendaria spiaggia che ha fatto da scenografia a tantissimi film. In effetti è uno spettacolo, la sabbia è bianca, lo skyline è pazzesco e il colore del mare si fonde con quello del cielo. L’acqua cristallina era l’ideale per trovare conforto dal caldo torrido e per giocare. Il fisico dei ragazzi del camp e, probabilmente, la loro palese simpatia ha fatto sì che due ragazze tentassero un approccio…miseramente fallito a causa dell’inglese zoppicante degli italiani. Le indigene li avevano apostrofati come “sporty guys” ma alle orecchie italiche il tutto è diventato “spotify”, “spottigai” e chissà cos’altro. Di fronte a questo cortocircuito linguistico, uno dei ragazzi ha alzato bandiera bianca: « I’m Italian, I don’t understand». Di sicuro, dopo questa bruciante sconfitta, ho capito quanto sia importante l’inglese. Specie per chi ama uno sport anglofono come il basket.
BRAVA SONO FIERA DI TE!
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